La validità e l’efficacia della meditazione vipassana – pratica che ha lo scopo di far emergere la vera natura della realtà soggettiva e di affrancare la mente da ogni sofferenza – sono indiscutibili. Ma quali sono i benefici concreti che si possono ottenere da questa disciplina? Quali sono le testimonianze di chi l’ha sperimentata in prima persona? In questi appunti, troverai le risposte di una voce autorevole quanto appassionata, quella di Rewata Dhamma, un maestro buddhista che ha dedicato la sua vita all’insegnamento e alla diffusione della vipassana nel mondo. Leggendo le sue argomentazioni, scoprirai come la meditazione possa influire positivamente su vari aspetti della tua esistenza, come la salute, le relazioni, il lavoro e la spiritualità. Ti invito a leggere con attenzione e curiosità quanto segue, ti offrirà una panoramica completa e stimolante sulla meditazione vipassana e sui suoi risultati pratici.
Discorso del Ven. Rewata Dhamma
I nostri atti mentali, verbali e fisici hanno origine nella mente. Ogni volta che avviene un contatto fra gli organi di senso e gli oggetti esterni – come forme visibili, odori, suoni, sapori e sensazioni tattili – all’interno del corpo nasce una sensazione, da cui si originano reazioni che sono causa di nuove azioni. Perciò, se si riesce a controllare la mente, si riesce a controllare anche l’azione, quindi il karma.
Il Buddha disse che i nostri corpi sono composti di trilioni e trilioni di minuscole particelle, più piccole degli atomi, che si rinnovano continuamente. Queste particelle sorgono e svaniscono milioni di volte ad ogni istante; nello stesso modo anche i nostri pensieri sorgono e svaniscono trilioni di volte a ogni secondo. Anche gli scienziati concordano sul fatto che il corpo umano, in condizioni normali, si rinnova continuamente. Quando queste particelle (o kalâpa, come le chiamò il Buddha) entrano in collisione fra loro, nasce la sensazione. Noi la chiamiamo sensazione reale o sottile. Durante la pratica della meditazione vipâssanâ, se la concentrazione è abbastanza buona, siamo in grado di osservare queste minuscole particelle nascere e svanire, e così possiamo controllare la mente prima dell’effettuarsi d’ogni azione. Perciò il Dhammapada (v. 103) dice:
«Non chi vince mille volte mille uomini in battaglia, ma colui che conquista la propria mente è un vero vincitore».
Per questo motivo la prontezza dell’attenzione è il più importante oggetto di meditazione nel buddismo theravâda. La meditazione buddista theravâda si divide in due branche principali: samâtha, o concentrazione, e vipâssanâ, o purificazione. Lo scopo del samâtha (o samâdhi) è quello di farci assorbire completamente nella meditazione. Lo scopo della vipâssanâ è di farci capire la vera natura della mente e della materia. Il samâtha è sempre stato diffusamente praticato dagli asceti in India, prima e dopo il Buddha. Il Buddha stesso lo praticò prima del risveglio, e conseguì grazie ad esso tutti e quattro gli stadi della concentrazione fino al più profondo, ma si avvide che lo stato di tranquillità che otteneva in questo modo non era duraturo. Il Buddha, infatti, cercava un modo per porre termine alla sofferenza una volta per tutte. Infine scoprì questa via incominciando ad osservare in se stesso la natura della mente e della materia e con questo sistema riuscì a conseguire la verità ultima: lo stato di nirvâna. La meditazione samâtha va bene solo per eliminare le impurità più grosse. Con la vipâssanâ, invece, possiamo sradicare le impurità più sottili, o sankhâra, create dalle nostre azioni passate o presenti.
La parola sankhâra ha molti significati, ma in questo contesto possiamo tradurla con “condizionamenti mentali”. Il Buddha insegnò a comprendere la vera natura delle cose tramite l’osservazione dei cinque componenti che formano la mente e il corpo. Così facendo, ci mettiamo in condizione di percepire le tre qualità di tutta l’esistenza condizionata, e cioè: 1) anicca, o impermanenza; 2) dukkha, o insoddisfacenza; e 3) anattâ, o insostanzialità. I cinque componenti sono: forma o materia, sensazione o emozione, percezione, formazioni mentali e coscienza. Questi cinque componenti tutti insieme costituiscono ciò che noi chiamiamo un essere vivente, la cui qualità è l’impermanenza e che, a causa di quest’impermanenza, sperimenta sofferenza. Non c’è alcun’altra essenza, o qualità, che sperimenti questa sofferenza oltre questi cinque componenti che chiamiamo «io».
Secondo la filosofia buddista, perciò, c’è la sofferenza, ma non c’è nessun sofferente, così come ci sono gli atti, ma non l’autore. In breve, possiamo dire che i cinque componenti sono la mente e la materia (nâma e rûpa), e che lo scopo della meditazione vipâssanâ è di capire la vera natura di questa mente-e-materia: per questa ragione i quattro oggetti della pratica sono rispettivamente: corpo, sensazioni, coscienza e pensieri. Quando s’incomincia a praticare la meditazione per la prima volta non è necessario osservare subito questi quattro oggetti contemporaneamente. Ma praticando con regolarità l’osservazione d’uno degli oggetti, si arriva presto a comprendere anche gli altri tre.
Dal momento che il corpo e le sue sensazioni sono più facili da osservare, la maggior parte dei maestri preferisce partire da questi. Solitamente s’incomincia contemporaneamente con la concentrazione sul respiro e sulle sensazioni del corpo, anche se, tradizionalmente, la concentrazione sul respiro è considerata il primo oggetto della meditazione samâtha. Essa può tuttavia essere usata per lo sviluppo dell’insight. Per la pratica della meditazione vipâssanâ non è necessario raggiungere gli stadi più profondi di concentrazione, ma per capire la vera natura del pensiero e della materia bisogna, per prima cosa, conseguire uno stadio che chiameremo concentrazione d’accesso (upacâra samâdhi), perché solo una mente concentrata può osservare la realtà e sperimentarla.
Osservando regolarmente il respiro, il meditante giunge a comprendere la natura dei processi fisici e mentali. Se poi presta attenzione alle sensazioni del corpo, arriva a comprendere non solo la natura della mente e della materia, ma anche la natura dei quattro elementi che costituiscono il corpo: gli elementi di Terra (l’intera gamma del peso, dalla leggerezza alla pesantezza), gli elementi d’Acqua (gli elementi della coesione, dei legami), gli elementi di Fuoco (l’intera gamma della temperatura, dal caldo fino al freddo) e gli elementi d’Aria (l’intera gamma del movimento). Anche la natura di questi elementi è impermanente. Comprendere la natura delle cose significa comprendere che sono tutte impermanenti (anicca), insoddisfacenti (dukkha) e prive di essenza (anattâ).
Tramite questa comprensione si giunge a comprendere la verità ultima o nirvâna. Questo è lo scopo principale della meditazione buddista theravâda. Allo stesso modo, se facciamo delle nostre sensazioni e formazioni mentali un oggetto di meditazione, possiamo raggiungere la medesima comprensione. La meditazione vipâssanâ è un metodo che se propriamente applicato comprende tutto il Nobile Ottuplice Sentiero insegnato dal Buddha. Il sentiero ha tre aspetti: moralità (sila), concentrazione (samâdhi) e saggezza, introspezione o purificazione (pañña). Molte persone, in passato e nell’epoca presente, hanno tratto beneficio dal Nobile Ottuplice Sentiero, che è ugualmente benefico per monaci e laici, giovani e vecchi, uomini e donne…, per tutti gli esseri umani appartenenti a qualunque casta, classe e comunità, paese, professione, religione o gruppo linguistico.
Nel sentiero non c’è nessuna meschina restrizione settaria. Esso è adatto a tutti gli esseri umani di tutti i tempi, di tutti i luoghi. È universale come tutte le sofferenze della vita: la nascita, la vecchiaia, la malattia, la morte, il trovarsi con persone e situazioni sgradevoli, la separazione da persone e situazioni gradevoli, non avere ciò che si desidera, affanni, angustie, lamenti. Tutte queste forme di disagio fisico e mentale sono universalmente percepite come sofferenza o dolore. Quando si applica la tecnica della vipâssanâ all’avidità, all’ira, alla paura, alla gola, all’infatuazione, alla gelosia, all’inimicizia, all’odio, all’egoismo e alle altre emozioni e passioni, si acquisisce la capacità di annullare tranquillamente tutte queste cose.
Alla base della meditazione buddista c’è l’osservanza dei cinque precetti (pañcasîla), e cioè: astinenza dall’uccisione, dal furto e dalla menzogna, da una sessualità disordinata e da sostanze inebrianti. Non importa se si siano o no osservati questi precetti prima di incominciare la pratica. L’importante è che, nal momento in cui si comincia, si cominci anche ad osservare i precetti. Essi sono necessari, perché queste cinque azioni distruttive e autodistruttive sono il frutto dei nostri errori mentali nonché la causa profonda dei mali dai quali cerchiamo di liberarci.
Al giorno d’oggi si soffre sempre più per certi mali, come la tensione nervosa, l’affaticamento, l’emicrania, l’eccessiva pressione sanguigna… o come infelicità, perenne insoddisfazione, instabilità mentale. c’è perciò bisogno di raccogliere le forze spirituali. C’è bisogno di una tecnica che aiuti ad affrontare la vita con serenità, e che possa essere utilizzabile subito, nelle varie condizioni in cui ci si viene a trovare di giorno in giorno. Con la pratica della meditazione vipassana, non solo ci si libera di questi inconvenienti nervosi, ma si sperimenta anche un certo grado di vera felicità in questa stessa vita. Dunque, come si pratica la meditazione? Si incomincia osservando i cinque precetti e praticando la concentrazione della mente. Come oggetto per la concentrazione si prende il respiro, rivolgendo l’attenzione alle narici e a ogni passaggio dell’aria in ingresso o in uscita.
È necessario, in questa fase, capire la differenza che passa fra questo esercizio e la pratica del pranayama nello yoga indù. Nel pranayama il respiro è controllato, regolato, mentre in questa pratica dell’ânâpâna buddista si osserva il respiro naturale, così com’è. Il termine ânâpâna, infatti, significa consapevolezza del respiro che viene e che va. Inoltre, nella pratica indù dello yoga si attribuisce molta importanza al modo in cui ci siede, mentre per la pratica dell’ânâpâna buddista qualsiasi posizione, purché non troppo comoda né troppo scomoda, va bene. Quando si concentra con continuità l’attenzione sul respiro all’ingresso delle narici, la coscienza diviene gradualmente sempre più acuta e consistente. Se, mentre si sperimenta la sensazione tattile del fiato nelle narici e nel naso, appare qualche altra sensazione nel naso o nelle sue prossimità, si concentra l’attenzione anche su di quella. Sono molti i tipi di sensazioni che possono insorgere, come, per esempio, dolore, pizzicore, formicolio, pulsazioni o fremiti, calore, tepore, freddo e così via. Qualunque sia la sensazione che si sperimenta, va esaminata. Alcune possono essere semplicemente frutto d’autosuggestione o d’immaginazione, ma il maestro sarà d’aiuto nel distinguere la realtà dall’immaginazione.
Dopo questa fase, s’incomincia a osservare le sensazioni lungo tutto il corpo, dalla testa ai piedi e dai piedi alla testa. Questo è ciò che è chiamato vipâssanâ, che in realtà significa osservare le cose in modo corretto, nella giusta prospettiva, per vedere le cose come realmente sono e non solo come sembrano. La vipâssanâ insegna ad essere osservatori distaccati delle sensazioni fisiche e delle emozioni mentali. Il meditante impara ad accettare tutte le sensazioni, piacevoli e spiacevoli, senza alcuna reazione, cioè con serenità, o equilibrio o intelligenza. In questo modo, la vipâssanâ è una tecnica efficacissima e, nello stesso tempo, assai semplice, per liberarsi dalla fatica mentale e dalle frustrazioni che sono così comuni al giorno d’oggi.
Come risultato della continua pratica, il meditante impara ad aver coscienza delle sensazioni in modo completamente distaccato, senza desiderio o avversione, e continuando nell’osservazione distaccata, a notare come le sensazioni vadano e vengano. Incomincerà a rendersi conto che tutte le sensazioni, piacevoli o spiacevoli, sono impermanenti e caduche. Il desiderio si fa meno forte e allora si può vedere che le sensazioni spiacevoli sono effettivamente spiacevoli, mentre quelle avvertite come piacevoli diventano anch’esse motivo di sofferenza quando scompaiono, a causa dell’attaccamento che si nutre per loro. Il desiderio diminuisce ulteriormente mentre si penetra più profondamente nella realtà del corpo e si scopre che ogni cosa dentro di esso è in uno stato di flusso continuo; che non c’è nulla nel corpo o nella mente che possa essere chiamato «io» o «mio» e che il mondo del corpo e della mente è falso, illusorio e privo d’essenza.
Comprendendo questo, il meditante sviluppa automaticamente un atteggiamento di distacco. In questo modo, basandosi sull’esperienza delle sensazioni, si arriva a comprendere che il desiderio è la causa prima d’ogni sofferenza. Per sradicare questo desiderio, bisognerebbe praticare regolarmente la vipâssanâ. L’obiettivo principale della vipâssanâ è la comprensione della verità ultima, il nirvâna, ma se la vipâssanâ diventa uno stile di vita, si riesce a raggiungere un più alto grado di felicità e pace mentale anche qui, in questa vita. A mano a mano che si sradicano le impurità, si consente alla purezza di mettâ, karunâ, muditâ ed upekkhâ di svilupparsi.
Mettâ significa amore, amore puro, benevolenza, amore universale, infinito o senza limiti. Ci sono vari tipi d’amore fra gli esseri umani. C’è l’amore dei genitori per i figli, quello del marito per la moglie, quello della moglie per il marito, l’amore fraterno, l’amore fra uomo e donna, quello fra parenti ed amici. Ma nessuna di queste forme è mettâ, amore puro. Esse sono tutte radicate nella brama (lobha), nel desiderio (upâdâna) e nell’ ignoranza (moha).
Karunâ significa compassione, pura compassione, infinita o compassione senza limiti. Esistono molti tipi di compassione. Se il nostro prossimo o i nostri cari soffrono, in noi nasce la compassione: incominciamo a condividere la loro miseria e il loro dolore a causa dell’affetto che nutriamo per loro. Ma se a soffrire è qualcun altro, per il quale non abbiamo attaccamento, allora non sentiamo compassione, non sentiamo la sua miseria come nostra. Questa non è karunâ, infinita compassione. Similmente, se le persone a noi care sono felici e fortunate, ci sentiamo felici per loro a causa del nostro affetto. Anche questa non è muditâ, gioia compartecipe, perché è radicata nell’ignoranza.
Muditâ significa pura gioia compartecipe, infinita gioia compartecipe, per tutti gli esseri, conosciuti e sconosciuti, senza alcuna discriminazione.
Upekkhâ significa equanimità. È un perfetto, incontrollabile equilibrio della mente, saldamente basato sull’insight. Nella misura in cui ci si riesce a liberare dall’attaccamento se stessi (l’«io» e il «mio») tanto più ci si ritrova colmi d’equanimità. L’equanimità è il più importante dei quattro stati sublimi (mettâ, karunâ, muditâ e upekkhâ). Ma ciò non significa che la serenità sia superiore all’amore, alla compassione e alla gioia compartecipe: l’uno comprende gli altri e viceversa. Finché nell’intimo saremo impuri o contaminati, non potremo dare questo amore puro agli altri esseri. Questo amore si trova oscurato o bloccato dalle nostre impurità. Ma, una volta che si è incominciato a purificarsi con la meditazione vipâssanâ, nella misura in cui l’impurità sarà stata rimossa, si sarà proporzionalmente capaci di mettâ verso gli altri.
Signore e Signori, grazie infinite per avermi ascoltato con tanta pazienza e attenzione. Spero che ora abbiate la possibilità di praticare la meditazione vipâssanâ per il vostro bene, e possa la vera felicità essere con tutti voi.
– Meditazione Vipassana (amazon)
– Biblioteca Vipassana (edizioni) – Macrolibrarsi
– Rewata Dhamma – Wikipedia