“Maestro, cos’è l’ansia?”, chiese di punto in bianco la rana zen al venerabile monaco che meditava seduto. Il monaco, tanto per cambiare, non le risposte affatto. La ignorava o non l’aveva nemmeno sentita?
La rana, dal canto suo, non fece una piega. Proseguì, come se nulla fosse, nelle sue consuete occupazioni. A onor del vero non se ne curò proprio nessuno. Non gli astanti che a tal proposito erano sembrati pressoché distratti. Non l’onnipresente gatto che oramai considerava la sala di meditazione come un rifugio. Non le bianche mura del tempio che, spesso e volentieri, avevano ispirato straordinarie e repentine intuizioni.
“Ansia è timore?”, riflettè in silenzio la rana. La sua non era una curiosità intellettuale. A volte si sentiva insicura, titubante, indecisa. Altre percepiva chiaramente la propria precarietà esistenziale; per non dire delle difficoltà sul lavoro, quando c’era, ovviamente; nel rapporto con i familiari, con gli amici; l’impermanenza poi la terrorizzava.
“Dio delle rane zen”, si sorprese ancora a pensare: qual è il problema di fondo, il nucleo, la chiave segreta, l’arcano per superare tutto ciò, per non cadere vittima delle mie pulsioni, di me stessa?
“D’altro canto”, si disse ancora l’imbelle, “il maestro non fa mai nulla per nulla; anzi, con lui persino il nulla dovrebbe avere un senso; si sa, i maestri zen insegnano coi fatti; sono consapevoli che certe chiacchiere lasciano sempre il tempo che trovano; sono drastici – o dentro o fuori – oppure seguono la via di mezzo; basta, ora è troppo, mi sono persa”.
Sìcchè, nell’animo della rana, ridiscese il silenzio. La serata era confortevole, le luci del solito viale soffuse e allettanti. Le panchine – sia quelle in dura pietra che quelle di legno – tutte libere, senza nessuno. Non c’era più nemmeno quell’accidenti di gatto.
“Ma perché sempre e solo gatti?”, penso d’improvviso la rana. “Quasi tutti calmi, tranquilli, taciturni, non dicono, appaiono. In pratica è come se non ci fossero. Di fatto sono così presenti a se stessi da sembrare assenti. È un vero enigma.”
“Cos’è che non capisco”?, argomentò ancora – semi-afflitto – l’anfibio. “Salto e risalto sempre sullo stesso punto, ma non centro mai l’obiettivo”, concluse recandosi finalmente verso il proprio accogliente giaciglio.
Trascorsero i giorni, no, per la rana erano lune. Gli arbusti germogliarono ancora. Si rifecero vivi nuovi splendidi fiori. Tutto seguiva un suo ritmo, ma la rana era angosciata lo stesso. Bastava che un nonnulla turbasse la routine e trasaliva.
Un mattino, uno tra i tanti, pressoché tutti simili, si recò di buon’ora nella sala di meditazione. Di primo acchito le sembrò tutto analogo, conforme, compatibile, ma a ben guardare si sentì sconcertata, turbata. Il cuscino su cui si sedeva da anni il maestro era vuoto, mentre lui, quel piccolo grande uomo, quel semi-nulla che in realtà non aveva mai insegnato niente a nessuno, si era accomodato in disparte. La rana zen si propose di meditare lo stesso, ma per quanto ci provasse era formidabilmente attratta da quello scanno vuoto. Senza quasi saperlo lo aveva contemplato da sempre. Quel quadro d’insieme era stato al centro di tutte le sue aspettative e ora … Un fulmine a ciel sereno non avrebbe potuto sortire un effetto più dirompente . … Che aveva fatto?
Senza comprenderlo subito, senza intuirne la portata, la rana zen si era soffermata oltremodo su quell’assenza, su quel vuoto. Poi l’aveva rintracciato in se stessa proseguendo a contemplarlo in silenzio. Sennonché, di punto in bianco, quell’orrido vuoto si era trasformato nell’universo intero.
La rana sollevò il capo e incrociò lo sguardo del monaco che le sorrideva deciso. “L’ansia è una carenza, una mancanza, è paura del vuoto”, le suggerì la vocina interiore, “medita su quel vuoto e scoprirai che non esiste”.
Grazie Maestro per la tua infinità bontà.
(Nota bene: le deduzioni della rana non sono una cura, questo è solo un racconto)